LUCI IN BOTTEGA
Luci in Bottega è un progetto di Arcipelago-19 e Freaklance che utilizza la fotografia come strumento di partecipazione della comunità del centro storico di Genova per costruire un racconto visivo del territorio.
La finalità del progetto è la produzione di un piccolo archivio di immagini che racconti la vita del centro storico di Genova in relazione alle sue botteghe. I macro-temi del lavoro, della produzione artigianale e del piccolo commercio, del nucleo familiare come sistema produttivo e delle trasformazioni socio-economiche che caratterizzano questo territorio vivo, saranno raccontati con diversi approcci da diversi artisti in residenza si alterneranno nell’organizzazione di progetti fotografici ed eventi pubblici.
Una selezione delle fotografie così prodotte sarà presentata in una mostra diffusa che ridarà luce ad alcune vetrine in disuso del centro storico. Inoltre un sito-web conserverà e renderà disponibile alla consultazione tutte le storie visive realizzate.
Sul campo
Centro delle attività di progetto è un luogo fisico e pubblico: PRÈ-Spazio, in via Prè n. 129, sarà utilizzato come punto di incontro e scambio fra gli artisti e la comunità.
Qui, dal 10 maggio al 15 giugno, una serie di attività, workshop e incontri permetteranno al gruppo di artisti di produrre immagini instaurando un dialogo continuo con la comunità protagonista del racconto.
Lo spazio di Luci in Bottega è anche un punto di partenza di una direttiva ideale che, da Prè a Giustiniani, incontra tutte le diverse facce del centro storico di Genova: da quella popolare a quella nobile, da quella migrante a quella gentrificata, da quella commerciale a quella radicale. Un’opportunità dunque per indagare come il centro storico di Genova (o forse di qualunque città italiana) si trasforma ed evolve.
PROGRAMMA
PRÈ-Spazio, via Prè 129, Genova – mappa
Gli artisti in residenza entreranno in contatto con le comunità del centro storico di Genova attraverso la produzione di lavori fotografici, l’organizzazione di laboratori aperti ed eventi pubblici, in modo che il PRÈ-Spazio diventi un luogo di dialogo continuo fra “Luci in Bottega” e il contesto che lo ospita..
Il risultato è un ricco programma che, per la natura altamente relazionale di Luci in Bottega, potrà variare e arricchirsi proprio in seguito all’incontro continuo fra gli artisti e gli abitanti del centro storico:
Maggio
Lancio della campagna di comunicazione di Luci in Bottega e apertura ufficiale del PRÈ-Spazio.
7-8 maggio | Apertura del PRÈ-Spazio
Inizio ufficiale delle attività di Luci in Bottega, al PRÈ-Spazio il negozio/laboratorio/hub di via Prè 129.
15-20 maggio | Artista in residenza: Ilaria Di Biagio
Dal 15 al 20 maggio l’artista Ilaria Di Biagio attiverà il laboratorio “Paesaggi Tascabili” che, attraverso la pratica del cammino, propone un attraversamento degli spazi urbani e/o suburbani per produrre una mappatura georeferenziata e fotografica del centro storico.
16-25 maggio | Artista in residenza: Gaia Degli Esposti
L’artista Gaia Degli Esposti intraprenderà – attraverso la sua pratica fotografica al contempo documentaria e poetica – un percorso di avvicinamento alle persone e alle comunità che vivono e animano il centro storico di Genova.
19-23 maggio | Artista in residenza: Federico Perruolo
Durante la sua residenza dal 19 al 23 maggio, Federico Perruolo applicherà la sua pratica fotogiornalistica, fortemente legata alle istanze sociali e politiche, ad un racconto sul centro storico di Genova e sulle comunità del quartiere di Prè.
19-25 maggio | Artista in residenza: Simone Cargnoni
Dal 19 al 25 maggio Simone Cargnoni attiverà un laboratorio di storytelling partecipato, destinato ai ragazzi dei quartieri limitrofi a PRÈ-Spazio. Il risultato del laboratorio sarà un racconto fotografico corale del centro storico concertato dagli stessi partecipanti con la supervisione dell’artista.
19 maggio | ore 19.00 | Talk: Ilaria Di Biagio, “Around the Walk”
Ilaria di Biagio presenta presso PRÈ-Spazio il progetto “Around the Walk” che la vede impegnata da anni in una ricerca sul cammino come pratica di esplorazione.
20-24 maggio | Laboratorio: “Take a-way” con Santiago Borthwick e Lavinia Parlamenti
I due fotografi utilizzeranno alcuni scorci del centro storico come sfondo per una serie di ritratti realizzati con una tecnica analogica e totalmente manuale. Gli abitanti del quartiere potranno portare a casa un loro ritratto seguendo direttamente sul posto il processo di realizzazione e la nascita delle immagini.
21 maggio | ore 19.00 | Talk: Gaia Degli Esposti, Simone Cargnoni, Federico Perruolo
Gli artisti in residenza Gaia Degli Esposti, Simone Cargnoni e Federico Perruolo mettono in confronto le rispettive ricerche artistiche e pratiche fotografiche in un incontro aperto al pubblico presso PRÈ-Spazio. L’incontro è un’occasione per conoscere a fondo il lavoro dei tre autori che presenteranno alcuni progetti fotografici a cui hanno lavorato negli scorsi anni.
21-29 maggio | Artista in Residenza: Studio Figure
Gli artisti Giulia Ticozzi e Giuseppe Fanizza di Studio Figure realizzeranno due interventi di indagine sul contesto del centro storico attraverso linguaggi diversi e personali: Giulia si concentrerà su alcuni prodotti del commercio velistico e della pesca per indagare il particolare rapporto di vicinanza e distanza fra il mare e il centro storico di Genova. Giuseppe Fanizza, raccoglierà le fotografie realizzate da alcuni commercianti del centro storico, per proporre una riflessione sul rapporto fra la città e le comunità che abitano via Pré.
21-25 maggio | Artista in Residenza: Michele Lapini
Prè/Post, le città sono teatro di trasformazioni continue, irregolari nel tempo e nella forma. Così lo sono le persone che la abitano e la vivono, con un ricambio di vite, storie e culture. In questo flusso di continuo cambiamento si proverà a capire il prima e il dopo di un quartiere come Prè, attraverso le sue mura, le sue case e le sue persone che lo vivono ogni giorno. Proviamo a fermare il presente mettendoci dentro passato e futuro.
21-29 maggio | Artista in Residenza: Sara Nicomedi
L’artista in residenza Sara Nicomedi progetterà e realizzerà un’ installazione fotografica che intende rispondere, anche attraverso il coinvolgimento dei cittadini, all’urgenza di riscatto delle botteghe storiche e dell’artigianato locale di fronte alle nuove abitudini di consumo online.
22 maggio | ore 19.00 | Talk: “Se questo è un UFO” di Giulia Ticozzi
L’artista in residenza Giulia Ticozzi proporrà, presso PRÈ-Spazio, una serie di case-studies intorno al potere dell’immagine nell’informazione contemporanea con cui si è confrontata direttamente durante la sua esperienza di photo-editor in due dei maggiori quotidiani nazionali.
24 maggio | ore 19.00 | Talk: “Non più, non ancora” di Michele Lapini e Valerio Muscella
La Bosnia per molte persone in movimento rappresenta una delle porte chiuse dell’Europa.
Migliaia di persone si trovano bloccate all’interno dei confini bosniaci nel tentativo di continuare il viaggio e raggiungere l’Europa. Per chi riesce a superare quella frontiera, poi ce ne saranno altre, e poi ancora altre. Dietro ogni persona c’è una storia che porta con sé, una storia lasciata indietro e una storia che l’aspetta. Un incontro per parlare di queste storie che prima o poi incrociamo lungo le nostre strade.
26 maggio | ore 19.00 | Talk: Sara Nicomedi
L’artista in residenza presenterà le sue ultime serie fotografiche che riguardano la crisi climatica vista e vissuta da un punto di vista personale.
27 maggio | ore 19.00 | Talk: Camillo Pasquarelli
Fare fotografia attraverso una pratica artistica capace di mettere insieme antropologia e immagine. Questo è l’approccio che il fotografo Camillo Pasquarelli utilizza per le sue ricerche e che verrà raccontato attraverso i suoi recenti progetti dedicati al kashmir: “Monsoons never cross the mountains” e “The valley of shadows”.
1 giugno ore | 19.00 | Talk: Anna Positano e Gaia Cambiaggi
Il racconto della ricerca sviluppata dal collettivo multidisciplinare “Corpi idrici”, nato a Genova nel 2021 per indagare le complessità del tessuto idrico attraversando una geografia, camminando su un paesaggio specifico che di norma non si percorre e sviluppando uno studio poetico del sistema linfatico di una città fluviale oltre che portuale. http://corpiidrici.it/
8 giugno | ore 19.00 | Talk: “Occupy Panorama” di Giuseppe Fanizza
Giuseppe Fanizza illustrerà, in un incontro presso PRÈ-Spazio, una serie di pratiche di riappropriazione iconografica del paesaggio che alcune comunità hanno attivato in diverse parti del mondo per reagire alla iper-produzione di immagini fotografiche, caratteristica delle dinamiche del turismo di massa.
9 giugno | ore 19.00 | Presentazione dei progetti realizzati al Pré-Spazio
11 giugno dalle 19.00 | Vetrinissage
In un evento presso PRÈ-Spazio si festeggerà la chiusura del progetto, si presenteranno al pubblico gli esiti progettuali e si inaugurerà contestualmente la mostra diffusa nelle vetrine. Una mappa online renderà fruibile il percorso finale delle vetrine allestite con le immagini realizzate durante le residenze di Luci in Bottega.
Ossimori - Roma
ROMA // Mercati comunali XII Municipio
Dal 29.10.2021
Arcipelago-19 e Zip Zone presentano:
OSSIMORI – paralleli convergenti
Mostra fotografica di Arcipelago-19 diffusa nei mercati comunali del XII Municipio.
“Ossimori – paralleli convergenti” mette in mostra stampe fotografiche di grande formato, realizzate su carta blueback e selezionate dall’ampio archivio di fotografie raccolto dal progetto Arcipelago-19, che raccontano attraverso molteplici sguardi questi anni di pandemia. L’esposizione sarà parte della rassegna “La mia Città è un giardino”, percorso che punta all’interscambio ed alla condivisione tra uomo e spazio urbano e promossa dall’associazione ZIP – Zone d’Intersezione Positiva
Mostra fotografica a cura di Arcipelago19, testo di Michela Monferrini e Paolo Di Paolo e sonorizzazione di Roberto di Maio.
Al mercato ci siamo tutti. Fate l’appello. Non manca nessuno. Necessità, scambio, chiacchiera e filosofia minima, notizie vere e notizie false, idee. È il ventre della città, di ogni città, dialoga con la testa e con il cuore. È lo spazio della nostra sopravvivenza.
Quando siamo stati confinati nelle nostre quattro mura, i prodotti del mercato hanno trovato modi inediti di raggiungerci: si sono mossi verso le case, sono saliti alle finestre dall’interno di un cestino, sono stati lasciati da mani disinfet tate sugli zerbini di fronte alle porte. Acquistati dallo schermo di un computer, arrivavano nel tempo di uno sbadiglio.
Ma un mercato è un’altra cosa, eccolo, lo vedete. La frutta, gli ortaggi e i fiori, il pesce e la carne e i formaggi, gli odori e i colori, le nostre voci, le mani. Esposti si dice dei prodotti, esposti e messi in mostra. Lo si dice anche delle fotografie: esposte allo sguardo, agli agenti atmosferici, alla luce, per un tempo forse sufficiente a farle deperire come poco più in basso la frutta, i fiori, le carni, il pane: anche questa è la legge della vita, e del mercato.
Le fotografie sono immobili, noi no. Però possiamo fermarci un istante, e specchiarci.
Perché siamo noi gli esposti. Siamo i guariti, siamo i rinati, siamo i sospesi. Siamo, al mercato Niccolini, Vittorio sempre seduto sulla sua poltrona. Dario che guarda fuori, Giovanni che guarda lontano. Milly che non riesce a dimenti care la paura. Guido che abbozza un sorriso. E non è facile.
Siamo, al mercato De Calvi, il fuoco dei copertoni e la bambina che sembra un’astronauta e forse un giorno lo sarà. Siamo gli uccelli in gabbia e i cavalli selvaggi. È nostro il dito che dice “qui” puntato su una carta geografica, nostre le dita guantate che sostengono un tampone da analizzare.
E così non ci stupisce che, al mercato San Giovanni di Dio, una piscina vuota diventi un giaciglio, un sipario si apra su un portone di ferro che pare irrimedia bilmente chiuso. Non ci sorprende perché guariti, rinati, sospesi in questo spa zio-tempo di contrasti, in attesa che le promesse che ci sono state fatte vengano mantenute, noi stessi siamo, come queste foto, ossimori: esprimiamo concetti contrari e dell’unione di quei concetti siamo la risultante.
Le fotografie sono immobili, noi no, si diceva. Ma al San Giovanni di Dio le foto escono dalla loro cornice, vengono stampate, inserite sulle shopping bag e di stribuite ai clienti del mercato, come pareti mobili dell’esposizione. I soggetti fotografati smettono così di essere fissati nella loro cornice una volta per tutte ed entrano nel flusso del mercato, viaggiano nel quartiere, arrivano nelle case. Foto in movimento: un altro ossimoro? Ma tra una cosa e il suo opposto, tra un concetto e il suo contrario, corre sempre una linea di contatto. Qualcosa come un margine un solco una cicatrice: ed è lì che bisogna guardare, è quella l’immagine mancante e sottesa, è lì che forse si annida il nostro autoritratto nel tempo presente.
Testo di Michela Monferrini e Paolo Di Paolo
Sonorizzazione di Roberto di Maio. Tre mercati, tre percorsi, tre elementi: aria, acqua e fuoco. Il quarto, la terra, li contiene tutti.
Fotografie di:
Martina Albertazzi, Marco Balostro, Emanuele Camerini, Max Cavallari, Gaia Degli Esposti, Ilaria Di Biagio, Groomingphoto, Sebastiano Luca Insinga, Valerio Muscella, Chiara Negrello, Sara Nicomedi, Lavinia Parlamenti, Federico Perruolo, Lorenzo Piacevoli, Luca Rotondo, Antonio Sansica, Chiara Scardozzi e Cristina Vatielli.
Grafiche di Gaia Degli Esposti
Le persone dietro i numeri - Manziana
LE PERSONE DIETRO I NUMERI
Dal 9 al 30 ottobre a Manziana (RM)
Piazza T. Tittoni, Largo G. Fara, piazza Vincenzo Parisi, Piazza Antonio Valentini, ingresso principale del bosco Macchia grande.
L’installazione fotografica ‘Le persone dietro i numeri’ nasce da un incontro, quello tra la fotografa manzianese Sara Nicomedi e la concittadina Sara Frignani, colpita duramente dal Covid nel marzo del 2020. La fotografa ha ritratto Sara per la serie fotografica “Guariti”, uno dei progetti che porta avanti Arcipelago-19, una rete di fotografi professionisti che si occupa di testimoniare gli effetti della pandemia in Italia.
Da questo incontro e momento di condivisione è nato il desiderio di organizzare questa installazione e di dare così la possibilità ad altri guariti di Manziana di condividere la loro esperienza.
Le fotografie esposte sono di Sara Nicomedi, Ilaria Di Biagio, Federico Perruolo e Valerio Muscella.
“Il covid non è solo mio, ma è anche di chi non lo ha avuto.” Lo dice Giovanni, che è stato un “positivo”, un “numero”, poi guarito, che ha deciso di farsi fotografare e di raccontare la sua storia. Questa installazione fotografica è prima di tutto dedicata a loro, a chi si è ammalato in questo anno e mezzo e ha sentito l’esigenza di condividere questa esperienza con gli altri.
“Le persone dietro i numeri”, però, ha anche l’intenzione di coinvolgere tutti perché, appunto, il covid, e tutto ciò che ha provocato, si è insinuato in tutte le case, nei negozi, in ogni museo, in tutte le scuole e ospedali, nei mezzi pubblici e negli stati d’animo di ognuno di noi, in tutto il mondo.
Molte delle frasi sui manifesti affissi a Manziana, estratte dalle interviste fatte ai guariti, sono infatti generiche, con l’intenzione di voler rendere tutti partecipi. In quanti hanno sentito la mancanza dei propri cari, desiderato l’abbraccio di un fratello, sentito il bisogno di riconnettersi con la natura, approfondito su certi valori? Il covid, la malattia e la guarigione diventano uno spunto per riflettere su quello che abbiamo passato e che ancora stiamo attraversando; ogni persona raccontata in questa mostra porta con sé una storia, unica e universale allo stesso tempo. Sono le persone ad essere in primo piano: con le loro paure, i loro desideri, le loro debolezze, le sconfitte subite e gli insegnamenti ricevuti. È per questo che non troverete solo delle fotografie ma anche frammenti delle loro vite, nel momento dell’isolamento e della malattia, che hanno scelto di condividere con noi.
Sono loro a parlare, qualcuno ne aveva bisogno più di altri; c’è chi ha pianto nello svelare la propria paura di morire, chi si è divertito a raccontare aneddoti buffi sul periodo di isolamento. Avevamo bisogno di tutto ciò: ascoltare le storie di ognuno, avere quei volti davanti, riportare l’attenzione sugli esseri umani.
Non è un caso se un piccolo paese di provincia, sconosciuto a molti, faccia da cornice a questi ritratti, a queste mani intrecciate e a questi abbracci. Manziana diventa per l’occasione tutti i paesi e tutte le città, perché i numeri si trovano ovunque, ma dietro ad ogni numero ci sono le persone.
Cartoline da un'estate Italiana
**Un’estate italiana** è un progetto collettivo di Arcipelago-19 che intende raccontare l’estate del 2021.
Dal 21 giugno abbiamo cominciato a raccogliere fotografie e storie da tutta Italia.
Quando ci siamo chiesti che estate sarebbe stata, oltre ad un racconto visivo online abbiamo sentito la necessità di ritornare a qualcosa di offline, di materiale e di analogico.
Abbiamo scelto un gesto che potesse risvegliare un ricordo di un’azione che tutt* noi abbiamo fatto almeno una volta: spedire una cartolina.
Scegliere un’immagine, scrivere un pensiero o un saluto sul retro, leccare e attaccare il francobollo e imbucare la cartolina da inviare alla zia o ad un amico. Sono tutte parti di un processo che vorremmo diventasse un’azione collettiva.
Per inviare una cartolina segui questi passi:
- scegli la foto dalla gallery qui sotto o dal nostro feed
- segna il codice dell’immagine e il nome dell’autore
- scrivi il testo di accompagnamento che vuoi venga scritto sul retro della cartolina
- scrivi il nome e l’indirizzo del destinatario
- fai una donazione a partire da 5 euro su Paypal
- invia tutto a foto@arcipelago19.it
- A settembre spediremo le cartoline
Il catalogo delle cartoline verrà aggiornato per tutto il mese di Agosto su questa pagina e sul nostro feed Instagram.
Un particolare ringraziamento a tutte le fotografe e i fotografi che stanno contribuendo al racconto collettivo!
Un'Estate Italiana
Foto in copertina di Lavinia Parlamenti
Un’estate italiana
Open call fotograf* professionist*
______
L’estate, da sempre, ci regala sollievo.
Ogni anno, con l’arrivo dei mesi più caldi, siamo soliti prenderci un momento di pausa dalle nostre vite. C’è chi non vede l’ora di scappare dal cemento e dal traffico urbano, c’è chi torna verso le proprie radici a visitare parenti lontani, chi si prende cura del proprio orto e chi, finalmente, ozia senza pretese, con l’impressione e la voglia di riposare lontano dalle pressioni dei ruoli sociali.
Ma l’estate, spesso, significa anche altro. Non tutti sudano uno spritz al riparo dal sole, su una spiaggia deserta o prima di un tuffo in piscina. Alcuni sono costretti a trovare un lavoro stagionale, altri fanno i conti con le difficoltà economiche, altri ancora si devono prendere cura di un proprio caro o semplicemente devono sopportare i racconti social delle vacanze degli altri o il chiacchiericcio di una spiaggia sovraffollata.
Che sia un viaggio da eremita, una festa su un lido famoso, il primo viaggio del secondogenito, o l’ennesimo maledetto lavoro precario, l’estate del 2021 ha un sapore un pò diverso da quello di tutti gli anni. Là fuori, infatti, con il calare della pandemia, il mondo sembra cominciare a riprendersi e a respirare più serenamente. Ed è questo che ci chiediamo, che estate sarà?
Per rispondere a questa domanda abbiamo deciso di lanciare una nuova call per un progetto collettivo. Il progetto Un’estate Italiana intende raccontare con molteplici punti di vista i mesi estivi che verranno, affidando ai fotografi dell’Arcipelago il linguaggio, lo stile, i contenuti e il taglio della narrazione visiva.
Il progetto parte il 21 giugno, l’inizio dell’estate.
Inizieremo a postare le fotografie fin da subito. Vorremmo che fosse un racconto corale e continuativo e per questo, in attesa della vostra selezione finale, ci piacerebbe ricevere anche fotografie singole, appunti di viaggio, parti di progetti in progress.
Indicazioni per l’invio dei files
Inviare via email o wetransfer su foto@arcipelago19.it
Caratteristiche file: 2 versioni dei file jpeg in cartella .zip con nome_cognome fotograf*:
- invio da 1 a max 15 fotografie
- risoluzione lato corto min 3000 px – 300 dpi – max 10 mb
- risoluzione lato lungo max 2000 px – 120 dpi – max 2 mb
- le didascalie sono da inserire nelle info file
- in progress: i file sono da nominare nel seguente modo: (prime due lettere del cognome e prima del nome es. Luca Rossi → ROL
- lo stile narrativo della foto è totalmente a vostra scelta, così come l’utilizzo del colore o del bianco e nero
Accordo informale tra Arcipelago-19 e fotografi
Anche questa volta, come per i progetti passati, abbiamo pensato che “Estate Italiana”, oltre che essere raccontata sul nostro feed IG, nei mesi potrebbe diventare un progetto fisico e tangibile.
Per questo motivo nel momento in cui manderai le fotografie acconsenti all’utilizzo, da parte di Arcipelago, per eventi utili alla promozione del lavoro “Estate italiana” pur mantenendone la proprietà fisica ed intellettuale.
In caso di pubblicazioni, riscontro economico o altri tipi di iniziative verrete contattate\i direttamente.
Grazie!
Arcipelago19
Open call Progetto collettivo - Guariti
Foto in copertina di Ilaria Di Biagio
Siamo convinti che la fotografia possa avere un ruolo attivo nel restituire il lato umano della pandemia e possa aiutare a comprendere i significati che la malattia ha avuto nella vita di chi è guarito o di chi ce l’ha fatta perdendo qualcuno lungo la strada.
Gabriele Mattia de Angeli, 29 anni, nato a Roma.
“Sono in una sala operatoria dell’ospedale, dove tutto è calmo e bianco. Ho una sensazione di tranquillità, però sono solo, non c’è nessuno intorno a me. Decido di alzarmi dal letto e mi accorgo che non ho nessuna flebo attaccata al braccio e riesco a camminare per la stanza. Mi avvio verso la porta, la apro e mi trovo nel mare. Per me il mare è tutto perchè mi ricorda la mia infanzia trascorsa nella casa in Sardegna. Comincio a nuotare in questo mare splendido e vado sott’acqua e continuo a nuotare in profondità. Sto bene e finché non perdo fiato continuo a scendere. Siccome sto per finire l’ossigeno, decido di tornare in superficie e nuoto verso l’alto, ma non riesco a risalire e improvvisamente comincio a soffocare. Cerco di riaffiorare ma non riesco a respirare. A quel punto mi sveglio e continuo a provare la sensazione di non riuscire a respirare. È davvero pesante svegliarsi da un sogno e sentire che ti manca l’aria. Una volta sveglio, credo di aver sbagliato, perchè mi sono lasciato andare e mi sono fatto prendere dal dolore e facendo questo, sono svenuto. Per fortuna però, un attimo prima di perdere coscienza, ho avuto la forza di lanciarmi sul bottone di emergenza per chiamare l’infermiera. Il giorno dopo mi sono svegliato intubato. Questa è la sensazione principale di cosa ti fa il covid, andare sott’acqua e non riuscire a risalire”.
–
Roma, 15.10.2020
Foto di Valerio Muscella
Presentazione del progetto e riflessioni generali
Negli ultimi mesi i bollettini giornalistici con il numero di persone contagiate in seguito al diffondersi dell’epidemia legata al covid-19 sono stati il nostro pane quotidiano. Abbiamo visto salire rapidamente la curva dei contagi e di pari passo abbiamo visto le nostre libertà improvvisamente diminuire. Su giornali e riviste la narrazione dominante ci ha offerto un costante flusso di immagini necessarie di terapie intensive piene, di dispositivi sanitari e di lunghe file d’attesa per svolgere test sierologici; inoltre abbiamo sentito storie di persone positive al covid in autoisolamento nelle proprie case e, purtroppo, abbiamo anche registrato il costante e crescente numero dei deceduti.
In poche parole, abbiamo assistito e partecipato alla medicalizzazione della nostra società e alla parallela trasformazione delle persone in pazienti ma l’abbiamo fatto per necessità e per osservare e capire il fenomeno soprattutto in termini quantitativi.
In questo momento storico non sono ancora del tutto chiari gli effetti che la diffusione del virus avrà su di noi e sulle nostre comunità perché siamo ancora lì, a tenere sotto controllo i bollettini con la coda dell’occhio. La curva dei contagi tende a risalire e nei paesi limitrofi la narrazione ha ripreso con il linguaggio allarmante che era nostro fino a pochi mesi fa.
Nonostante tutto, sappiamo bene che dietro ad ogni cifra si nascondono delle storie e in corrispondenza di ogni numero c’è uno spessore fatto di emozioni, pensieri e comportamenti che hanno attraversato le persone nella propria quotidianità. E siamo convinti che la fotografia possa avere un ruolo attivo nel restituire il lato umano della pandemia concentrandoci sui significati che la malattia ha avuto nella vita di chi è guarito o anche di chi ce l’ha fatta perdendo qualcuno lungo la strada.
La sfida che ci poniamo, quindi, è quella di riavvicinarci proprio a quelle persone che sono dovute rimanere isolate a lungo e vogliamo farlo lentamente, con rispetto, rimanendo in ascolto e offrendo loro la possibilità di un racconto, quello del processo che ha permesso loro di guarire e di tornare ad essere persone dopo essere state pazienti.
Foto di Francesco Pistilli
Tecnica: ritrattistica, raccolta di materiale di repertorio, possibilità di raccogliere interviste audio
Modalità invio materiali: via email o wetransfer su arcipelago19@gmail.com
Caratteristiche file: 2 versioni dei file jpeg in cartella .zip con nome_cognome fotograf*:
- File alta risoluzione lato corto min 3000 px – 300 dpi – max 10 mb
- bassa risoluzione lato lungo max 2000 px – 120 dpi – max 2 mb
- lo stile narrativo del ritratto è a scelta del/la fotograf*, così come l’utilizzo del colore o del bianco e nero
Testo, didascalia e racconto audio:
Come per tutti i materiali che compongono l’Arcipelago abbiamo pensato che anche questi ritratti possano essere accompagnati da un racconto a parole. Perciò quello che chiediamo a tutt* è di inviare una didascalia o un testo di accompagnamento in grado di approfondire la storia della persona, che vada oltre la rilevazione giornalistica dei dati.
Alcuni di voi hanno proposto una raccolta sistematica anche dei dati più “clinici” (a.e. sui tempi e sulle modalità del decorso della malattia). Anche questi dati possono essere utili al racconto, quindi sentitevi liberi di raccoglierli.
Inoltre è emersa la possibilità di condividere i contatti qualora le persone che vorreste fotografare sono al di fuori dal vostro raggio di azione. Questo potrebbe facilitare il lavoro di qualche altro fotograf* presente nella zona del soggetto. Vi invitiamo dunque a segnalare queste eventualità e provvederemo a condividere la lista contatti.
Infine, vi invitiamo ad associare ad ogni fotografia un audio raccolto nel momento dello scatto frutto della conversazione tra persona ritratta e fotograf*. Crediamo che il racconto audio possa essere realizzato in maniera personale e libera e quindi senza domande prestabilite perché espressione della relazione con il soggetto e della situazione in cui avviene l’incontro.
Caratteristiche file audio:
- max 2 minuti editati
- file AAF (oppure Mp3; wav)
Qualora voleste inviarci anche il racconto audio vi preghiamo di inviare anche la trascrizione in file word, con scheda guarito (Nome, luogo), al fine di facilitare il compito di chi raccoglierà il materiale.
Queste linee guida sono emerse in seguito ad un incontro collettivo avvenuto a Cortona il 26 Settembre 2020 e sono da intendere come una proposta. Qualora aveste idee, critiche e/o suggerimenti mandateci una mail su arcipelago19@gmail.com
Se ritenete opportuno coinvolgere altr* collegh* fotograf*, fate pure, anche se quest* non hanno ancora mai partecipato ai progetti di arcipelago in nessuna forma.
Grazie!
Arcipelago19
Valentina Ferreri, operatrice socio sanitaria, 35 anni, Firenze.
Ad aprile è risultata positiva al Covid, ed è stata oltre 40 giorni in isolamento lontana dalla figlia Bianca. Ad oggi, non le è ancora tornato l’olfatto. “…anche se finalmente qualche giorno fa ho sentito il profumo del ciclamino. Sono clinicamente guarita per tutti al secondo tampone negativo, ma psicologicamente, ancora, non si guarisce”, racconta mentre ci immergiamo nel bosco dai colori autunnali.
Durante la quarantena ricorda che “Sarei solo voluta andare da mia figlia. Però il primo luogo dove mi sono sentita in pace è stato lungo il sentiero delle sequoie gemelle per arrivare al Castello di Sammezzano.”
Foto di Ilaria Di Biagio
Parco delle sequoie, Castello di Sammezzano, Firenze. 26 ottobre 2020
Overture! - di Michele Lapini
“Overture!” è un affaccio sul Teatro Comunale di Bologna durante e dopo il lockdown. Le fotografie documentano i vari momenti di vita del teatro: il vuoto iniziale di un teatro solitamente popolato, il racconto dell’adattamento dovuto all’emergenza del Comunale, dove la sartoria sanificata ha iniziato a produrre mascherine, mentre il laboratorio scenografico produceva strutture di legno con il plexiglas per le normative anti Covid-19; infine, la pulizia e la trasformazione del teatro per poter riaprire in sicurezza.
Il Teatro Comunale di Bologna nacque per ricostruire qualcosa che era stato distrutto, in quel caso il Teatro Malvezzi distrutto nel 1745 dopo un’incendio. Così anche oggi si è trasformato ed è ripartito.
Il periodo pandemico è stato, per il teatro e chi lo fa, un momento utile a guardarsi dentro, a specchiarsi, a disperarsi, in molti casi. Tante linee di frattura, sopite da tempo, sono improvvisamente esplose nella solitudine delle case, mentre i teatri restavano deserti. Per ogni palco rimasto vuoto, da qualche parte c’era un teatrante proiettava la propria mancanza ragionando tra le pareti di casa.
Mentre scrivo, agli albori della fase 2, percepisco, da parte di molti colleghi, una tremenda voglia di tornare alla normalità. Le strade, da silenziose e ferme, rimbombano di nuovo di operosità e motori.
“Qua si vive di questo. Privi di tutto, ma con tutto il tempo per noi: ricchezza indecifrabile, ebollizione di chimere. Siamo piuttosto placidi e pigri; seduti, concepiamo enormità, come potrei dire? Mitologiche. Udiamo voci, risa. Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi.”
Il mago Cotrone, da I giganti della montagna di Luigi Pirandello
Nella fase 1 tutto era fermo e questo ci faceva sentire autorizzati a star fermi anche noi, godendo (inutile negarlo) dell’allineamento della società tutta alla nostra virtuosa inutilità. Abbiamo avuto tempo di fermarci, di ascoltare, di leggere, di far niente, nel migliore dei casi di renderci conto della sofferenza che la nostra vita ci procura e piangerne un po’. Di confrontarci con la domanda che si pone il protagonista di Delitto e castigo: “Ma io, sono come un insetto o come Napoleone?”.
Insomma la fase 1 ci ha dato la possibilità, nel contempo, di riposarci e di confrontarci con la nostra miseria. Di accorgerci quanto poco siamo necessari e richiesti e, forse proprio in virtù di questo, di riposarci e volerci anche un po’ bene. Nel mio caso anche di cucinare, leggere, scrivere, dormire (sognare forse), stare con chi amo. Tutte cose che spesso trascuro di fare per fare il teatro, come se il teatro potesse essere fatto da uno che non fa bene tutte le cose precedentemente elencate.
“Questo è il mio teatro. Il sipario, poi la prima quinta, poi la seconda e più in là uno spazio vuoto. Niente scenografia. La veduta si apre direttamente sul lago e sull’orizzonte”
Konstantin, da Il gabbiano di Anton Cechov, Atto primo
Nella fase 1 è stata sospesa d’imperio quella che gli anglofoni chiamano FOMO – Fear of missing out, la paura di perdersi qualcosa. Non c’era niente da perdersi fuori, nessuna festa, e l’epicentro del mondo eri finalmente tu, la tua quiete, la tua solitudine, la tua miseria, i tuoi entusiasmi. Insomma le condizioni ottimali per porre i presupposti di un qualunque atto creativo. Dico presupposti perché nell’atto teatrale si prevede, in un secondo momento, di metterle in comune questa quiete, queste solitudini, queste miserie, questi entusiasmi, e trasformarli in materia viva, in continua trasformazione e dialogo con gli spettatori.
“Per questo noi esigiamo da voi, gli attori del nostro tempo, tempo di rivolgimento, che trasformiate voi stessi e ci mostriate il mondo degli uomini così com’è: fatto degli uomini e mutabile.”
Dal “Discorso agli attori-operai danesi sull’arte dell’osservazione” di Bertolt Brecht
Nella fase 1, per qualche giorno, il sistema è andato quasi in blocco, vittima di un guasto che ne ha richiesto il pur temporaneo e parziale arresto, o almeno così ci è sembrato. Per qualche istante abbiamo addirittura creduto che da questo arresto, da questa pagina bianca, si potesse scrivere qualcosa di nuovo, di importante. Naturalmente era una percezione sbagliata, materialisticamente, ma quell’eco ci ha risvegliato come l’idea che un mondo, un’organizzazione della realtà, una società diversa fossero possibili. Altro presupposto fondamentale dell’atto creativo: raccontare la realtà perché si coltiva la speranza che essa possa essere fatta nuova, diversa.
Infine, e forse soprattutto, per qualche giorno abbiamo smesso di rimuovere completamente la prospettiva della morte, grande assente di tutte le nostre conversazioni. Per qualche giorno ci ha invece camminato accanto, snocciolata lugubre nel bollettino delle 18, come la tetra tombola di Maša alla fine del Gabbiano. Ed ecco un ulteriore presupposto della creazione: la vicinanza alle cose innominabili, grandi, rimosse.
Quante cose necessarie, per noialtri, nella fase 1.
Eppure in questa fase 1 noi artisti si smaniava di riprendere quella normalità atroce che abbiamo descritto fin qua.
La fase 2 ci si presenta come più complessa, difficile. Quelle intuizioni che abbiamo sfiorato nella fase 1 ci chiedono di diventare azione, in un contesto strano, lunare, difficile. Un contesto in cui ci scarcerano con il patto che noi andremo a consumare il più possibile nel minor tempo possibile per salvare quante più attività produttive possibile: per salvare questa economia, questo sistema produttivo che ci avvelena, nel corpo e nello spirito. Che necrotizza sempre più il nostro organo del teatro. Dovremmo forse, come artisti, porci il problema di quale teatro fare e come farlo, nel corso di questa fase 2, per non trovarci ad essere uno dei tanti comparti produttivi che devono ripartire ad ogni costo. Per tentare di ripartire con qualche consapevolezza in più. Per non partecipare ad un possibile processo di rimozione collettiva di uno dei rari momenti in cui la storia ci è passata a fianco.
Dall’inizio della quarantena e la chiusura dei teatri, le musiciste e musicisti dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna hanno continuato a studiare, suonare e praticare a casa.
I ritratti sono stati realizzati nelle proprie abitazioni, indossando il vestito da concerto: nonostante il teatro chiuso e la cassa integrazione, per un musicista, non è pensabile fermarsi.
Per loro il teatro è un luogo di cultura essenziale, collettivo e insostituibile. E dovrebbe essere così per tutti.
Ecco alcuni appunti sparsi per affrontare in modo sensato la fase 2:
- Sarebbe importante tentare di costruire narrazioni che non solo non abbiano fretta di rimuovere quanto è successo, ma che tentino anche di conservare memoria di ciò che è stata la fase 1 e quali contraddizioni questa ha mostrato, cercando di evocare ancora e ancora i fondamentali conflitti di fronte ai quali ci siamo tutti trovati.
- Come artisti, dal punto di vista formale, il nostro compito dovrebbe essere quello di scovare, nella realtà, contraddizioni e sguardi nuovi. Come teatranti, sappiamo che il primo dovere di fedeltà lo dobbiamo alla circostanza data che si crea all’interno della sala teatrale, prescindere da questa ci relega al ruolo di macchiette. Insomma, quando e se dovremo adattare uno spettacolo a causa del distanziamento o di altre misure, penso dovremmo fare sì che questa distanza diventi drammaturgia e memoria della nostra condizione di sopravvissuti.
- L’abbandono del campo, a mio avviso, non è un’opzione, per un semplice motivo: dove non c’è qualcosa, c’è qualcosa d’altro, gli spazi che vengono abbandonati, verranno occupati da qualcun altro. Mi pare che di spazio, in questi anni, ne abbiamo già ceduto abbastanza. Il che mi porta a una riflessione: perché, in Italia, quando pensiamo a scelte radicali, immaginiamo sempre scelte di ascesi e solitudine? Come si è formato nel nostro immaginario l’equazione: radicalità uguale fuga in un luogo isolato, lontano da tutti, immersi nella contemplazione della purezza dell’arte? Ne “I giganti della montagna” di Pirandello alla contessa Ilse viene offerta la possibilità dell’ascesi, dell’abbandono della crudeltà del mondo per potersi isolare a Villa Scalogna, circondata da fantasmi e fantocci animati. Ilse è tentata, i suoi attori ancora di più. Ma sceglie di continuare a recitare, anche di fronte ai brutali Giganti della montagna, anche a costo della vita. Perché lì stanno i teatranti, in mezzo al mondo orribile e duro e spietato, che alla fine se li mangia.
- Toccherà arrangiarsi, ancora peggio, ancora di più. Saranno da prediligere valige leggere, strutture agili, palchi improvvisati, scene essenziali, incursioni in luoghi inusuali. Ci sarà da raggranellare i soldi che servono alla sopravvivenza in modi creativi e inaspettati. Questo non solo per la difficile situazione economica in cui il paese si troverà, ma perché abbiamo capito che il consumo di cose non salverà nessuno, meno che mai gli spettacoli. Bisognerà essere un po’ pirati, avendo sempre cura e attenzione di non farci sfruttare. Un equilibrio sicuramente difficile.
Sono trascorsi molti giorni da quando ho cominciato a scrivere tutto questo. O forse sono in fondo pochi ma sembrano un’epoca. L’invecchiamento di ciò che ho scritto mi è tristemente evidente, così come è sorprendente la velocità con cui è avvenuto. Questo mi causa una strana sensazione di malinconia, anche se non lo reputo del tutto un difetto. Mentre scrivo, tra pochi giorni, ricomincerà il teatro, anche il nostro, seguendo i punti che ho esposto prima. Tuttavia, presto, ognuno tornerà alle proprie occupazioni, alla propria competizione, alla propria sfida. Alla propria complessa lotta per la sopravvivenza, materiale e spirituale. Nulla è cambiato, l’orrore è solo un po’ più evidente, anche se, per il momento, non sufficiente a incendiare le città come in altri, imprevisti, angoli del mondo. Ci tocca ricominciare, lasciarci alle spalle tutto questo con una potente sensazione di insoddisfazione, di aver mancato un appuntamento, di aver perso un treno.
Che cosa resta? Per quanto mi riguarda la consapevolezza che entrare in scena dovrà essere, da qui in poi più che mai, una lotta. Se, come abbiamo detto, il teatro che vorremmo non può darsi in questa circostanza, ci sarà comunque il teatro. Distanziato, desolato, resistente, coriaceo, forse vivo e stranamente affascinante, in qualche momento, come l’erbaccia che vedo dalla mia finestra che è cresciuta, enorme, spaccando il marciapiede e che ancora nessuno è venuto a tagliare, ultimo lunare baluardo della fase 1.
Forse, almeno per me, ricomincerà nella più compiuta consapevolezza di questo paradosso: non poter accadere, eppure accadere. In questo contrasto c’è tutta la lezione che mi ha consegnato questo momento tremendo della storia recente: l’impossibilità di entrare in scena questo momento di totale riflusso e decadenza, sottolineato spietatamente dalle sedie vuote e sparute, dagli attori distanti, dalle mascherine, dal clima finalmente dichiaratamente mesto, dall’impossibilità di godere fino in fondo di uno spettacolo, unito alla inesorabile necessità di farlo, di provarci.
Lo spazio che c’è tra queste due impossibilità, l’impossibilità di fare il teatro e l’impossibilità di non farlo, è, oggi, il teatro stesso.
“È un sollievo…erano due anni che non piangevo.
Ieri sera sul tardi sono andata a guardare in giardino se fosse ancora intatto il nostro teatro. Ed è ancora lì. Mi sono messa a piangere per a prima volta dopo due anni, e ne ho avuto conforto, l’anima si è rasserenata”
Nina, da Il gabbiano di Anton Cechov, Atto quarto
Nicola Borghesi, classe 1986, è attore, regista, drammaturgo, direttore artistico per la compagnia Kepler-452 di cui è anche fondatore. La sua indagine si focalizza soprattutto sull’invenzione di dispositivi artistici di messa in scena della realtà: realizza reportage teatrali, coinvolge non professionisti (o attori-mondo), esplora luoghi poco frequentati per raccontarli, crea e armonizza, sulla base di libere associazioni, gruppi improbabili di esseri umani. È inventore del Festival 20 30 di Bologna, che negli ultimi quattro anni si è fatto carico di raccontare in scena una generazione. Realizza, insieme a Kepler-452, “Il giardino dei ciliegi – Trent’anni di felicità in comodato d’uso” prodotto da ERT-Emilia Romagna Teatro, i progetti di teatro partecipato “Comizi d’amore” e “La rivoluzione è facile se sai con chi farla”.
Michele Lapini è un fotografo toscano di casa a Bologna.
Co-fondatore di Arcipelago-19, lavora per La Repubblica con la redazione nazionale e quella di Bologna. Collabora anche con altre riviste e media, seguendo le questioni politiche, sociali e ambientali che attraversano la città e l’Italia e quando può si affaccia all’estero per documentare storie di respiro internazionale. Al lavoro di fotogiornalista affianca l’attività espositiva e collaborazioni in diversi settori: cinema, editoria e arte pubblica.
Grazie a
tutto il personale del Teatro Comunale di Bologna, che mi ha aiutato, accompagnato, sopportato, agevolato e insegnato tante cose in un luogo così bello. A Maurizio Tarantino, che è stato il passpartout per questo progetto. A tutta l’Orchestra e a coloro che durante il lockdown mi hanno aperto le porte di casa, posando e suonando musiche meravigliose. A chi ogni giorno rende la cultura viva e piena di bellezza.
Una panoramica visiva sull’Italia in lockdown, un viaggio a partire dalle isole divise dal mare della quarantena verso la ripartenza di un Paese che resiste e che lotta per tornare Arcipelago.
La sera del 9 marzo è stato come l’inizio di una serie.
Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte in conferenza stampa annunciava che dal giorno successivo l’Italia sarebbe diventata una “zona protetta”, decretando così una quarantena nazionale che sarebbe durata fino al 4 maggio. Tutto d’un tratto le immagini che avevamo visto a Codogno, a Nembro o a Vo’, ce le siamo ritrovate fuori dalle nostre finestre, sui nostri quotidiani locali, disperse nei social.
Era l’inizio delle città vuote, della chiusura delle aziende, non tutte però. Le scuole e le chiese chiuse, gli spostamenti proibiti, l’inizio delle numerose autocertificazioni. Guardavamo la Cina con sarcasmo e tutto d’un tratto ci siamo svegliati con le città vuote e gli ospedali pieni. Le strade e le piazze deserte come non mai, silenzi interrotti dai primi flash mob ai balconi, che hanno avuto però vita breve, non come il suono delle ambulanze. Chiusi in casa, ma improvvisamente nel centro del mondo.
Gli annunci delle conferenze stampa del Governo, il bollettino delle 18.00 con i numeri del Covid-19. I primi dubbi, gli immancabili complotti, i professionisti dello sciacallaggio. Come in una serie. Ma non c’era finzione. Le terapie intensive si riempivano ogni giorno di più. La Lombardia come centro del vortice. I medici da Cuba, dalla Cina, dalla Russia. La retorica degli eroi e la consapevolezza dell’importanza della sanità pubblica e l’inaccettabile vergogna dei suoi tagli.
Ancora il bollettino delle 18, la speranza di un appiglio. Picco, flat, curva epidemica, pandemia, paziente zero. Le telefonate ai genitori, le rassicurazioni che tanto muoiono solo gli anziani. I primi coetanei morti. La paura e la perplessità. Chiudere tutto, aprire tutto. Gli aperitivi social, le città e l’hashtag #nonsiferma. L’esercito che trasporta le bare, i cimiteri pieni, il lutto negato. I numeri in continua crescita, i primi politici contagiati. Il virus che scavalca le frontiere. L’economia o la vita.
La riscoperta delle mura domestiche, dell’intimità, delle relazioni di prossimità. L’invidia di chi sta in campagna, l’oppressione della città. L’inversione dei paradigmi e la consapevolezza dell’importanza della libertà.
La speranza che quando passerà tutto si capirà che l’individuo è nulla senza la società. I primi tentativi di solidarietà, il distanziamento sociale ma non l’allontanamento sociale. La quarantena volontaria, quella fiduciaria e quella obbligatoria. La caccia alle streghe vestite da runner, le fabbriche ancora aperte, la delazione come sfogo.
Le città non sono vuote, ci sono sempre le/gli invisibili. Il virus non colpisce tutti allo stesso modo. Immaginate di vivere per strada e tutto d’un tratto aprire gli occhi e non trovare più niente. Dalla moneta data per strada, alla presa per la batteria del cellulare, al pasto donato o alle parole prima di andare a dormire. C’è chi ha perso il lavoro e chi non ce l’ha mai avuto. Il doversi reinventare tutto, riprogrammare, mettere le pezze per arrivare alla data di fine decreto, che poi sarà solo l’inizio di un altro. Le prime misure di sostegno, la coperta troppo corta. Chi piange miseria e non chi non ha neanche più le lacrime.
E cosa penseranno i bambini? Vi immaginate quelle trottole cariche a molla costrette a stare dentro casa, tutto il giorno, tutti i giorni. L’importanza di toccare, provare, sbagliare, sporcarsi, piangere e urlare. Cosa gli rimarrà addosso, cosa perderanno per strada. Apriranno gli occhi in un mondo pieno di mascherine, di sorrisi nascosti e linguacce negate. Sono sempre quelli senza colpa a rimetterci di più.
Ma questo è un via libera? Congiunti o stabili? Siamo arrivati di fronte a un formicaio di dubbi, interpretazioni, esasperazioni e assurdità. Dopo la fase uno, ci sarebbe la fase due. E poi la fase 3, ma la chiamano sempre fase 2.
Ma che vuol dire? Si può o non si può? Intanto si ricomincia a respirare un poco, anche solo per i senza colpa di prima.
Che bello rivederl* in mezzo all’erba no? Guardiamo però sempre anche gli ospedali, non ci sono eroi, ma lavoratori e lavoratrici che si aspettano rispetto da noi.
Che poi bisogna stare attenti, che finiamo nei libri di storia e mica ci vogliamo fare brutta figura no? Teniamo sempre gli occhi aperti, cominciamo a costruire ponti, così che piano piano tutte le isole possano tornare Arcipelago.
In copertina: Genova, foto di Marco Balostro/Freaklance
Maggio 19, 2020
Prima il silenzio - di Simone Cargnoni
Ho iniziato a fotografare in Valle Sabbia quando la Lombardia è diventata zona rossa e poi dopo che hanno chiuso tutto.
Della gente di qui non ne ha parlato quasi nessuno.
È una valle piccola.
Di un paese di 500 persone, chi ne parla?
Il testo di Martina Melilli è accompagnato dalle frasi del fotografo Simone Cargnoni raccolte dall’autrice durante le loro lunghe conversazioni mentre preparavano questa storia.
Come si può raccontare per immagini qualcosa di non rappresentabile?
In una situazione di emergenza la prima reazione è di allarme fisico e mentale. Ci si prepara all’attacco o alla fuga e aumenta la capacità di elaborare informazioni.
Alla fine di febbraio ancora a nessuno era chiara la gravità della situazione. Non sembrava prossima, nello spazio e anche nel tempo. Non sembrava nostra. Siamo stati tutti colti alla sprovvista.
La prima reazione è stata d’incredulità e di fuga.
Mai prima la nostra libertà aveva subito delle limitazioni istituzionali così nette, per ragioni in quel momento ancora poco chiare ai più. E quando ti dicono fermati, non ti muovere, tu scappi. È una reazione animale istintiva. Lo spazio per razionalizzare non c’è, lì. Viene dopo.
Prima di questa quarantena io non avevo mai fotografato scene dove non ci fossero persone.
Per me se non c’era la persona, se non le si vedevano gli occhi, non era una fotografia. E invece mi sono reso conto che alcune cose che volevo esprimere richiedevano che le persone non ci fossero.
Forse questa pandemia ha cambiato il mio modo di pormi, di avvicinarmi alle fotografie che faccio.
D’improvviso la morte ci è cascata addosso, gelida, netta, una massa dura, consistente.
La morte, che negli ultimi decenni è stata progressivamente esclusa, rimossa da qualsiasi discorso pubblico e privato, di colpo pugno in pieno viso.
“Nella morte ci riconosciamo umani”, dice Marta Villa, antropologa.
La devozione dei defunti trascende la religione perché caratterizza tutte le culture di tutte le epoche. È una costante. Quando un gruppo umano, per la prima volta, ha deciso di seppellire un proprio caro, è nata la religione, la spiritualità. È una pratica che parte dall’uomo di Neanderthal e non si è mai interrotta, in alcuna società e in alcun periodo. Solo durante le pestilenze. Che per questo sconvolgono dalle fondamenta, perché interrompono una delle cose che, da millenni, ci rende quello che siamo: uomini.
Nella pandemia si muore soli. Forse c’è un operatore sanitario. Nessun ultimo saluto, o carezza. Nessuna ultima parola. Commiato, riparazione, riconciliazione. Lutto mutilato, sospeso. Non si fanno i funerali. Nessun rito di passaggio, gestione collettiva del dolore, azioni rituali che aiutano ad accettare, ad addomesticare la morte. Che resta non addomesticata. E resta il senso di colpa e la disperazione, un limbo. Sospeso.
Se con le prime risposte fisiche e mentali, per gravità, intensità o durata la situazione non risulta gestibile, si crea uno stato di shock, stordimento e confusione. Negazione. Dissociazione. Rabbia. Tristezza. Iperattività. Le reazioni sono molteplici e diversificate.
Impossibile definire chiaramente il rischio, il pericolo. Bombardati da una marea d’informazioni, di numeri, dati, procedure, allarmismi. Non ci sono filtri protettivi contro questa marea che esce da ogni schermo, da ogni canale.
E non si riesce a vedere, e a vederlo. Il virus, e come si muove, come si trasmette, come si sposta. Caccia all’untore. Il paziente zero, il paziente duecentoventunmila. Lui, il virus, si sposta, noi no, fermi, a casa. In attesa. Aspettiamo che se ne vada, o che arrivi e passi senza far danno, che non si prenda noi, nessuno a noi caro, vicino, prossimo. Il prossimo.
Ho provato prima a seguire cosa succedeva qui nel paese, la cronaca, per capire cosa stesse succedendo qui intorno.
Sono entrato nelle RSA, sono stato sulle ambulanze, con la Protezione Civile. Poi ho contattato il prete, sapevo che stava organizzando la via crucis. Ho parlato con le persone, ho visto il paesaggio mutare.
Ho iniziato a girare un po’ la valle, fino all’industria, alle sanificazioni, ai posti di blocco.
Quando in paese c’è stata la prima morte sono andato a chiedere di poter fotografare il funerale. La figlia della defunta non poteva andare in Chiesa. Le ho detto chiaramente che sono ateo, ma che trovavo giusto la chiesa fosse addobbata a festa per come possibile, mi sono offerto di portare dei fiori e scattare una foto per lei che non poteva esserci.
In quel momento il paese ha capito la gravità della situazione, non tanto perché è morto qualcuno, quanto perché al funerale non poteva esserci nessuno. E qui abitualmente le chiese ai funerali sono piene, si conoscono tutti.
Cala il silenzio. Stare fermi.
Si ridefinisce il concetto di movimento e di spazio. E di rumore, paesaggio sonoro che ci circonda. Di luogo. Vedi poche persone. Vedi la tua casa. Ne noti dettagli cui prima non avevi mai prestato attenzione. Scansioni angoli, centimetri. Scopri nuovi mondi nel micromondo che abitualmente ti ospita. Ti guardi allo specchio e scopri te. Ti senti. Perché non hai alternativa, perché è anche bello accorgersi che in una pausa dal moto costante e dal rumore la tua testa riesce a notare cose che prima non era possibile annoverare tra i mille mila stimoli da processare al secondo. Costantemente. La finestra si fa filtro del mondo, dal mondo, schermo su cui è proiettato, il fuori. L’altrove. L’al-di-là. Un’inquadratura fissa all’interno della quale accadono piccole cose, cambiamenti; la percezione che non lì, ma oltre, la vita continua, il mondo c’è ancora, e chissà com’è.
Un’apertura sul mondo chiuso fuori. E dentro cosa resta? Dentro cosa c’è?
Dopo le iniziali reazioni fisiologiche ed emotive inizia a farsi largo l’impatto emotivo del trauma, che colpisce persone diverse in tempi diversi. In questa fase quello che si manifesta sono ipervigilanza, incubi, pensieri e immagini intrusive, sintomi dissociativi, sintomi di iperattivazione ed estrema stanchezza, fisica e mentale. E l’evitare i pensieri che riportano all’evento, al problema.
Non si respira. Il virus ti fa annegare in te stesso, ti toglie l’aria.
Non si respira perché la mascherina toglie l’aria. Perché se non hai la mascherina trattieni il respiro tu, o lo trattieni e basta, in apnea senza accorgertene, in uno stato d’angoscia costante. Incertezza. Hai tempo ma la sostanza di questo tempo è diversa, altra, alterata. Densa. La convenzione nel calcolare la durata si fa sottile, inutile, inconsistente. Non vale più.
Assenza e solitudine si riempiono di pensieri, di sensazioni, di attività impreviste, per farle passare le giornate, per scandire le ore. Settimane. E sono mesi.
Era il giorno di Pasqua ed ero stato a fare una passeggiata in una zona che si chiama la Valle dei Morti, che è dove andavano a morire gli appestati del paese nel 1630. Allora il paese perse 1000 abitanti su 1350. Tornando da questa valle ho sentito odore di bruciato – è il tipico periodo in cui si bruciano le sterpaglie per risistemare gli orti.
Arrivato in questo posto dove stavano bruciando ho fatto un paio di foto. Non avevo assolutamente visto quella figura. Io vedevo solo salire del fumo. Ma una volta messe nel computer, era lì, esattamente così.
Qui si esce dalla famiglia molto presto. Tanti vanno fuori casa già a 15 anni perché fanno le superiori in città invece che in paese.
C’è un tessuto sociale che può essere forte ma in qualche modo si è anche tutti un po’ da soli.
Fare queste fotografie mi ha mandato in crisi.
In questo caso quello che vedi e che senti è molto più forte di quello che riesci a cogliere in uno scatto.
Come fare?
Perché non si tratta di uno scontro di piazza, una rivoluzione, dove nelle fotografie riesci a immortalare la tensione, la violenza, la disperazione.
Qui non è evidente.
Come si può rappresentare cosa voglia dire per mesi non potersi avvicinare fisicamente ai propri figli, alla propria moglie, pur vivendoci assieme, nonostante tutte le precauzioni possibili, per proteggerli, perché fai un lavoro a contatto diretto col virus?
La fase di coping che segue l’impatto emotivo del trauma può essere definita anche come strategia di adattamento, convivenza.
Pandemia dice che il virus è arrivato ad ogni latitudine e ovunque nel mondo sono state attivate misure di contenimento simili, più o meno severe. Ubiquo e non democratico. Le situazioni sono state, sono, tutte diverse. Le condizioni di base della vita di ciascun individuo esasperate in maniera imprevedibile.
Angoscia. Disagio. Paura. Fatica. La solitudine, protratta, dilatata, sistemica. Organica. E in questa cosa ognuno di noi si è trovato solo, sola, non nel senso stretto di avere, sentire la necessità o la voglia di parlare con qualcuno, ma più nel constatare che ognuno con questa cosa deve farci i conti da sé soltanto. Fare i conti, tirare le somme. Trovare il modo di convivere con la situazione, di sopravvivere, sopravviverla. Ognuno, ognuna a modo suo.
È nella variazione improvvisa da una precedente condizione che la percezione si fa più fine, più precisa, dettagliata. Quando cambia di colpo la luce. Quando c’è una folata di profumo. Quando cala il silenzio. Quando quello che avevi dato per certo viene meno. Affetti, averi, certezze.
Il corpo impara a stare fermo. A non toccare, non farsi toccare. Il corpo degli esseri umani possiede un’incredibile capacità d’adattamento. Qual è il prezzo?
E la mente?
Loro fanno questo lavoro per tutto il giorno.
E poi la sera non tornano a casa. Sono in missione, tornano nella base provvisoria.
Stanno con la stessa gente con cui hanno lavorato per tutto il giorno, e il giorno dopo ricomincia uguale.
Uno del loro gruppo mi ha chiesto di stampargli le fotografie dei figli perché partendo di fretta da Napoli non ha avuto modo di portarle con sé.
L’ultima fase di gestione del trauma è quella dell’accettazione.
Prima il silenzio, in cui sentire cose che non riuscivamo più a sentire.
E poi è vero che il cielo è limpido come mai prima, che si vedono montagne lontanissime con definizione quasi macroscopica dei dettagli. Estrema chiarezza. O non le avevamo mai guardate con attenzione, prima? Non avevamo lasciato quello spazio, quel tempo?
E ripartire da questa chiarezza?
La “fase due” è iniziata da una decina di giorni e sembra meno definita della uno, più vaga, sfocata. Altrettanto straniante. Le regole sono poco chiare, e ormai delle regole le avevamo imparate. Ma poi cosa succede?
È ancora attesa, ma esattamente di cosa? Cos’è la vita di prima, qual è?
Siamo colti alla sprovvista.
Me ne sono andato da qui fuggendo perché era un posto che mi opprimeva e in cui non avrei mai potuto sviluppare il lavoro che sto facendo. Ma ora, avendoci vissuto la pandemia, mi sono reso conto ancora di più di quanto questa valle mi abbia formato senza che io me ne rendessi conto.
Martina Melilli (1987) è un’artista audio-visiva, regista e autrice.
I suoi cortometraggi sono stati selezionati in diversi festival nazionali e internazionali e i suoi lavori esposti e proiettati al PAC di Milano, al MART di Rovereto, Spazio Labò di Bologna, Ekrani i Artit festival, Scutari (Albania), Vista d’Arte (Lisbona). Ha vinto l’edizione 2017 di Artevisione con il film MUM, I’M SORRY, poi acquisito dal Museo del Novecento (Milano). My home, in Libya è il suo primo documentario di creazione, che ha avuto la sua anteprima mondiale al Festival di Locarno nel 2018, vincendo poi diversi premi e menzioni speciali. Collabora con la rivista Playboy Italia con la rubrica CORPO A CORPO | Bodily Conversations.
Simone Cargnoni è un fotografo bresciano.
Dal 2014 fa parte di Jump Cut, realtà che si occupa di cinema e fotografia, con sede a Trento.
Nei suoi lavori predilige l’approccio documentaristico.
Ha all’attivo due libri fotografici: “Marlene Kuntz | 3 di 3” accluso all’edizione deluxe dell’album “Nella tua luce” (Sony 2014) e “Colapesce & Infedele Orchestra” edito da 42Records e Jump Cut (2018).
Ha pubblicato con: Rolling Stone, Rockerilla, XL di Repubblica, L’Espresso, La Repubblica, Corriere della Sera, Internazionale, Stern.
Un ringraziamento speciale a
Fam. Togni-Ferliga, Alberto Manassi, Onoranze Funebri Eridio, Fondazione Angelo Passerini, Marcella Bacchetti, fam. Bertelli, Gruppo Volontari del Garda, Luca Cavallera, fam. Bettinelli-Micheli, Maura Marelli, Gruppo Volontari Antincendio Boschivo e Protezione Civile Treviso Bresciano, don Paolo Morbio, fam. Pozzi-Motelli, fam. Stefani-Tiboni, Dnd handles – Martinelli, fam. Mazzoleni-Antonini, Comando Provinciale Carabinieri Idro, Alfredo Cadenelli, Roberta Fanton, Giovanni Coccoli, Fondazione Richiedei, 7mo Reggimento Difesa CBRN E.I., Alvaro Busi, CPF80, Gigi Boracia, Fondazione Sospiro
E nell'oscurità puoi trovare i colori - di Elisabetta Zavoli
La fotografa Elisabetta Zavoli trasforma la quarantena della sua famiglia in una fiaba dark, evocando atmosfere mitologiche tra il gioco e la fantasia. In questa serie Elisabetta prende i figli per mano e li accompagna in un viaggio alla scoperta dei colori dell’oscurità, mettendo in scena le sfide più intime della propria interiorità.
Prima della pandemia non ho mai avuto molto tempo da passare con i miei figli, Davide, 11 anni, e Giovanni, 8. La vita girava a ritmi frenetici tra il mio lavoro, la scuola, le loro attività pomeridiane e la mia vita sociale.
Tutto ad un tratto, ALT! FERMI TUTTI! RIMANETE DOVE SIETE! STATE A CASA!
Si, casa.
Siamo tra quelle persone abbastanza fortunate ad avere un grande giardino perché viviamo in campagna. Ho sempre sopportato male la distanza dalla città ma ora questo giardino è diventato la nostra salvezza.
Dall’inizio della quarantena i miei figli mi hanno raccontato le loro paure e mi hanno posto molte domande sul virus e sulla situazione che stiamo vivendo. Per far fronte a questi pensieri ed emozioni difficili da gestire, soprattutto per il più piccolo, abbiamo deciso di creare un universo di sogni e magia grazie alla connessione con la natura che ci circonda.
“E nell’oscurità puoi trovare i colori” è il risultato di questo progetto fotografico partecipativo che sto realizzando con i miei figli dall’inizio del lockdown. Ogni notte ritagliamo la nostra idea dal buio completo, illuminando la scena con diverse fonti di luce. Non sappiamo mai come sarà esattamente l’immagine: facciamo un piccolo progetto disegnando su un taccuino e poi lo adattiamo al luogo, al nostro corpo e alle nostre sensazioni. Un ruolo importante è lasciato all’improvvisazione e alla nostra connessione. Ogni immagine è fonte di ispirazione per l’immagine successiva. Usiamo oggetti che troviamo in casa: vecchi giocattoli, lenzuoli, maschere, vecchi utensili che troviamo in garage. Poi ci confrontiamo sulle immagini che abbiamo appena realizzato e usiamo questo processo per rinnovare e rafforzare i legami tra di noi. Per le fotografie ho scelto un formato verticale per richiamare l’idea di una porta che si apre nel nostro mondo interiore.
Abbiamo scelto questo titolo per riferirci sia allo stile del nostro racconto visivo sia alla speranza che in ogni situazione, anche la peggiore, riusciremo a trovare gli aspetti positivi.
E per me l’aspetto positivo inaspettato di questo confinamento è il prezioso tempo sospeso trascorso con i miei figli, fuori dal mondo, nel nostro mondo, dove posso godere degli ultimi colori della loro infanzia.
Elisabetta Zavoli è una fotografa documentarista italiana, freelance dal 2009. Ha vissuto in Indonesia 6 anni dove ha lavorato da un lato su questioni di genere, legate alla comunità di waria (donne transgender indonesiane) e alle donne impiegate nelle industrie tessili di Jakarta e, dall’ altro, su questioni ambientali legate all’inquinamento (da mercurio e plastica) e relative ai cambiamenti climatici. Nel 2016, le è stato assegnato il “Journalism Grant for Innovation in Development Reporting” rilasciato dallo European Journalism Centre per il progetto “A fistful of shrimps”, sulla deforestazione degli ecosistemi di mangrovie indonesiane indotti dai consumi occidentali di gamberi tropicali a basso costo. Nel 2019, la sua fotografia “The landfill midwife” ha vinto il primo premio all’ Earth Photo Award rilasciato dalla Royal Geographical Society di Londra. E’ membro della comunità internazionale di fotografe Women Photograph e del gruppo internazionale di fotografi @Everydayclimatechange.