“Overture!” è un affaccio sul Teatro Comunale di Bologna durante e dopo il lockdown. Le fotografie documentano i vari momenti di vita del teatro: il vuoto iniziale di un teatro solitamente popolato, il racconto dell’adattamento dovuto all’emergenza del Comunale, dove la sartoria sanificata ha iniziato a produrre mascherine, mentre il laboratorio scenografico produceva strutture di legno con il plexiglas per le normative anti Covid-19; infine, la pulizia e la trasformazione del teatro per poter riaprire in sicurezza.

Il Teatro Comunale di Bologna nacque per ricostruire qualcosa che era stato distrutto, in quel caso il Teatro Malvezzi distrutto nel 1745 dopo un’incendio. Così anche oggi si è trasformato ed è ripartito.

Il periodo pandemico è stato, per il teatro e chi lo fa, un momento utile a guardarsi dentro, a specchiarsi, a disperarsi, in molti casi. Tante linee di frattura, sopite da tempo, sono improvvisamente esplose nella solitudine delle case, mentre i teatri restavano deserti. Per ogni palco rimasto vuoto, da qualche parte c’era un teatrante proiettava la propria mancanza ragionando tra le pareti di casa.

Mentre scrivo, agli albori della fase 2, percepisco, da parte di molti colleghi, una tremenda voglia di tornare alla normalità. Le strade, da silenziose e ferme, rimbombano di nuovo di operosità e motori.

“Qua si vive di questo. Privi di tutto, ma con tutto il tempo per noi: ricchezza indecifrabile, ebollizione di chimere. Siamo piuttosto placidi e pigri; seduti, concepiamo enormità, come potrei dire? Mitologiche. Udiamo voci, risa. Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi.”

Il mago Cotrone, da I giganti della montagna di Luigi Pirandello

Nella fase 1 tutto era fermo e questo ci faceva sentire autorizzati a star fermi anche noi, godendo (inutile negarlo) dell’allineamento della società tutta alla nostra virtuosa inutilità. Abbiamo avuto tempo di fermarci, di ascoltare, di leggere, di far niente, nel migliore dei casi di renderci conto della sofferenza che la nostra vita ci procura e piangerne un po’. Di confrontarci con la domanda che si pone il protagonista di Delitto e castigo: “Ma io, sono come un insetto o come Napoleone?”.

Insomma la fase 1 ci ha dato la possibilità, nel contempo, di riposarci e di confrontarci con la nostra miseria. Di accorgerci quanto poco siamo necessari e richiesti e, forse proprio in virtù di questo, di riposarci e volerci anche un po’ bene. Nel mio caso anche di cucinare, leggere, scrivere, dormire (sognare forse), stare con chi amo. Tutte cose che spesso trascuro di fare per fare il teatro, come se il teatro potesse essere fatto da uno che non fa bene tutte le cose precedentemente elencate.

“Questo è il mio teatro. Il sipario, poi la prima quinta, poi la seconda e più in là uno spazio vuoto. Niente scenografia. La veduta si apre direttamente sul lago e sull’orizzonte”

 

Konstantin, da Il gabbiano di Anton Cechov, Atto primo

Nella fase 1 è stata sospesa d’imperio quella che gli anglofoni chiamano FOMO – Fear of missing out, la paura di perdersi qualcosa. Non c’era niente da perdersi fuori, nessuna festa, e l’epicentro del mondo eri finalmente tu, la tua quiete, la tua solitudine, la tua miseria, i tuoi entusiasmi. Insomma le condizioni ottimali per porre i presupposti di un qualunque atto creativo. Dico presupposti perché nell’atto teatrale si prevede, in un secondo momento, di metterle in comune questa quiete, queste solitudini, queste miserie, questi entusiasmi, e trasformarli in materia viva, in continua trasformazione e dialogo con gli spettatori.

Stefania, responsabile sartoria
Fulvio, Sovrintendente
Lorenzo e Antonio, tecnici luci
Marco, Direttore Affari Generali
Antonio, macchinista
Mauro, Direttore Artistico

“Per questo noi esigiamo da voi, gli attori del nostro tempo, tempo di rivolgimento, che trasformiate voi stessi e ci mostriate il mondo degli uomini così com’è: fatto degli uomini e mutabile.”

Dal “Discorso agli attori-operai danesi sull’arte dell’osservazione” di Bertolt Brecht

Nella fase 1, per qualche giorno, il sistema è andato quasi in blocco, vittima di un guasto che ne ha richiesto il pur temporaneo e parziale arresto, o almeno così ci è sembrato. Per qualche istante abbiamo addirittura creduto che da questo arresto, da questa pagina bianca, si potesse scrivere qualcosa di nuovo, di importante. Naturalmente era una percezione sbagliata, materialisticamente, ma quell’eco ci ha risvegliato come l’idea che un mondo, un’organizzazione della realtà, una società diversa fossero possibili. Altro presupposto fondamentale dell’atto creativo: raccontare la realtà perché si coltiva la speranza che essa possa essere fatta nuova, diversa.

Infine, e forse soprattutto, per qualche giorno abbiamo smesso di rimuovere completamente la prospettiva della morte, grande assente di tutte le nostre conversazioni. Per qualche giorno ci ha invece camminato accanto, snocciolata lugubre nel bollettino delle 18, come la tetra tombola di Maša alla fine del Gabbiano. Ed ecco un ulteriore presupposto della creazione: la vicinanza alle cose innominabili, grandi, rimosse.

Quante cose necessarie, per noialtri, nella fase 1.

Eppure in questa fase 1 noi artisti si smaniava di riprendere quella normalità atroce che abbiamo descritto fin qua.

La fase 2 ci si presenta come più complessa, difficile. Quelle intuizioni che abbiamo sfiorato nella fase 1 ci chiedono di diventare azione, in un contesto strano, lunare, difficile. Un contesto in cui ci scarcerano con il patto che noi andremo a consumare il più possibile nel minor tempo possibile per salvare quante più attività produttive possibile: per salvare questa economia, questo sistema produttivo che ci avvelena, nel corpo e nello spirito. Che necrotizza sempre più il nostro organo del teatro. Dovremmo forse, come artisti, porci il problema di quale teatro fare e come farlo, nel corso di questa fase 2, per non trovarci ad essere uno dei tanti comparti produttivi che devono ripartire ad ogni costo. Per tentare di ripartire con qualche consapevolezza in più. Per non partecipare ad un possibile processo di rimozione collettiva di uno dei rari momenti in cui la storia ci è passata a fianco.

Dall’inizio della quarantena e la chiusura dei teatri, le musiciste e musicisti dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna hanno continuato a studiare, suonare e praticare a casa.

I ritratti sono stati realizzati nelle proprie abitazioni, indossando il vestito da concerto: nonostante il teatro chiuso e la cassa integrazione, per un musicista, non è pensabile fermarsi.

Per loro il teatro è un luogo di cultura essenziale, collettivo e insostituibile. E dovrebbe essere così per tutti.

Eva, violoncello
Simone, clarinetto
Fabio, contrabbasso
Alessandra, violino
Gianluca, oboe
Katia, corno

Ecco alcuni appunti sparsi per affrontare in modo sensato la fase 2:

  • Sarebbe importante tentare di costruire narrazioni che non solo non abbiano fretta di rimuovere quanto è successo, ma che tentino anche di conservare memoria di ciò che è stata la fase 1 e quali contraddizioni questa ha mostrato, cercando di evocare ancora e ancora i fondamentali conflitti di fronte ai quali ci siamo tutti trovati.
  • Come artisti, dal punto di vista formale, il nostro compito dovrebbe essere quello di scovare, nella realtà, contraddizioni e sguardi nuovi. Come teatranti, sappiamo che il primo dovere di fedeltà lo dobbiamo alla circostanza data che si crea all’interno della sala teatrale, prescindere da questa ci relega al ruolo di macchiette. Insomma, quando e se dovremo adattare uno spettacolo a causa del distanziamento o di altre misure, penso dovremmo fare sì che questa distanza diventi drammaturgia e memoria della nostra condizione di sopravvissuti.
  • L’abbandono del campo, a mio avviso, non è un’opzione, per un semplice motivo: dove non c’è qualcosa, c’è qualcosa d’altro, gli spazi che vengono abbandonati, verranno occupati da qualcun altro. Mi pare che di spazio, in questi anni, ne abbiamo già ceduto abbastanza. Il che mi porta a una riflessione: perché, in Italia, quando pensiamo a scelte radicali, immaginiamo sempre scelte di ascesi e solitudine? Come si è formato nel nostro immaginario l’equazione: radicalità uguale fuga in un luogo isolato, lontano da tutti, immersi nella contemplazione della purezza dell’arte? Ne “I giganti della montagna” di Pirandello alla contessa Ilse viene offerta la possibilità dell’ascesi, dell’abbandono della crudeltà del mondo per potersi isolare a Villa Scalogna, circondata da fantasmi e fantocci animati. Ilse è tentata, i suoi attori ancora di più. Ma sceglie di continuare a recitare, anche di fronte ai brutali Giganti della montagna, anche a costo della vita. Perché lì stanno i teatranti, in mezzo al mondo orribile e duro e spietato, che alla fine se li mangia.
  • Toccherà arrangiarsi, ancora peggio, ancora di più. Saranno da prediligere valige leggere, strutture agili, palchi improvvisati, scene essenziali, incursioni in luoghi inusuali. Ci sarà da raggranellare i soldi che servono alla sopravvivenza in modi creativi e inaspettati. Questo non solo per la difficile situazione economica in cui il paese si troverà, ma perché abbiamo capito che il consumo di cose non salverà nessuno, meno che mai gli spettacoli. Bisognerà essere un po’ pirati, avendo sempre cura e attenzione di non farci sfruttare. Un equilibrio sicuramente difficile.

Sono trascorsi molti giorni da quando ho cominciato a scrivere tutto questo. O forse sono in fondo pochi ma sembrano un’epoca. L’invecchiamento di ciò che ho scritto mi è tristemente evidente, così come è sorprendente la velocità con cui è avvenuto. Questo mi causa una strana sensazione di malinconia, anche se non lo reputo del tutto un difetto. Mentre scrivo, tra pochi giorni, ricomincerà il teatro, anche il nostro, seguendo i punti che ho esposto prima. Tuttavia, presto, ognuno tornerà alle proprie occupazioni, alla propria competizione, alla propria sfida. Alla propria complessa lotta per la sopravvivenza, materiale e spirituale. Nulla è cambiato, l’orrore è solo un po’ più evidente, anche se, per il momento, non sufficiente a incendiare le città come in altri, imprevisti, angoli del mondo. Ci tocca ricominciare, lasciarci alle spalle tutto questo con una potente sensazione di insoddisfazione, di aver mancato un appuntamento, di aver perso un treno.

Che cosa resta? Per quanto mi riguarda la consapevolezza che entrare in scena dovrà essere, da qui in poi più che mai, una lotta. Se, come abbiamo detto, il teatro che vorremmo non può darsi in questa circostanza, ci sarà comunque il teatro. Distanziato, desolato, resistente, coriaceo, forse vivo e stranamente affascinante, in qualche momento, come l’erbaccia che vedo dalla mia finestra che è cresciuta, enorme, spaccando il marciapiede e che ancora nessuno è venuto a tagliare, ultimo lunare baluardo della fase 1.

Forse, almeno per me, ricomincerà nella più compiuta consapevolezza di questo paradosso: non poter accadere, eppure accadere. In questo contrasto c’è tutta la lezione che mi ha consegnato questo momento tremendo della storia recente: l’impossibilità di entrare in scena questo momento di totale riflusso e decadenza, sottolineato spietatamente dalle sedie vuote e sparute, dagli attori distanti, dalle mascherine, dal clima finalmente dichiaratamente mesto, dall’impossibilità di godere fino in fondo di uno spettacolo, unito alla inesorabile necessità di farlo, di provarci.

Lo spazio che c’è tra queste due impossibilità, l’impossibilità di fare il teatro e l’impossibilità di non farlo, è, oggi, il teatro stesso.

“È un sollievo…erano due anni che non piangevo.

Ieri sera sul tardi sono andata a guardare in giardino se fosse ancora intatto il nostro teatro. Ed è ancora lì. Mi sono messa a piangere per a prima volta dopo due anni, e ne ho avuto conforto, l’anima si è rasserenata”

Nina, da Il gabbiano di Anton Cechov, Atto quarto


Nicola Borghesi, classe 1986, è attore, regista, drammaturgo, direttore artistico per la compagnia Kepler-452 di cui è anche fondatore. La sua indagine si focalizza soprattutto sull’invenzione di dispositivi artistici di messa in scena della realtà: realizza reportage teatrali, coinvolge non professionisti (o attori-mondo), esplora luoghi poco frequentati per raccontarli, crea e armonizza, sulla base di libere associazioni, gruppi improbabili di esseri umani. È inventore del Festival 20 30 di Bologna, che negli ultimi quattro anni si è fatto carico di raccontare in scena una generazione. Realizza, insieme a Kepler-452, “Il giardino dei ciliegi – Trent’anni di felicità in comodato d’uso” prodotto da ERT-Emilia Romagna Teatro, i progetti di teatro partecipato “Comizi d’amore” e “La rivoluzione è facile se sai con chi farla”.  

Michele Lapini è un fotografo toscano di casa a Bologna.
Co-fondatore di Arcipelago-19, lavora per La Repubblica con la redazione nazionale e quella di Bologna. Collabora anche con altre riviste e media, seguendo le questioni politiche, sociali e ambientali che attraversano la città e l’Italia e quando può si affaccia all’estero per documentare storie di respiro internazionale. Al lavoro di fotogiornalista affianca l’attività espositiva e collaborazioni in diversi settori: cinema, editoria e arte pubblica.


Grazie a 

tutto il personale del Teatro Comunale di Bologna, che mi ha aiutato, accompagnato, sopportato, agevolato e insegnato tante cose in un luogo così bello. A Maurizio Tarantino, che è stato il passpartout per questo progetto. A tutta l’Orchestra e a coloro che durante il lockdown mi hanno aperto le porte di casa, posando e suonando musiche meravigliose. A chi ogni giorno rende la cultura viva e piena di bellezza.